Erdogan, non si può fare a meno di lui
di Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi - venerdì 09 dicembre 2022 ore 20:00
A pochi giorni dall’intensificarsi dei bombardamenti dell’aviazione turca in territorio siriano, seguita all'attentato avvenuto nel pieno centro di Istanbul il 13 novembre scorso, l'evoluzione più plausibile dello scenario è quello di un’invasione militare per colpire le roccaforti curde, ritenuti i mandanti.
Anche se nessuna sigla ha, sino ad oggi, rivendicato il gesto terroristico per il governo di Ankara, e soprattutto per il presidente Erdogan, la responsabilità è da attribuire direttamente al PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). La fine della fragile tregua che ha regnato, più o meno, negli ultimi anni tra turchi e milizie curde è un segnale poco ottimistico per la sponda meridionale del Mediterraneo. Preludio all'innalzamento del livello di violenza su scala regionale. Il tutto avviene a pochi mesi dall'incognita della scadenza del voto, previsto a giugno 2023.
Sul Bosforo il clima che si respira è già quello di un paese in piena campagna elettorale, anche se sarebbe più opportuno parlare di un referendum su Erdogan. Se il malcontento, per la grave recessione economica e la perdurante crisi finanziaria in cui versa il paese ha alimentato il dissenso generale interno, la pressoché assenza di una figura carismatica tra l'opposizione favorisce la riconferma di Erdogan al potere. Il quale, in particolare dopo il tentativo di golpe del 2016, ha assunto un approccio sempre più populista, antidemocratico e decisamente vittimistico.
Il capo dell'AKP (partito della Giustizia e dello Sviluppo) ha improntato la propria strategia di vendetta contro i nemici su un doppio binario: repressione interna con purghe che hanno praticamente quasi sradicato la libera informazione. Mentre, sul piano estero continua il contenzioso con l'Europa, a cui vorrebbe aderire imponendo però le proprie regole. Intanto, Bruxelles paga un conto salato per non vedersi arrivare milioni di rifugiati siriani (questi i termini dello scandaloso accordo in essere).
Nel mirino della propaganda di Erdogan è finito sempre più spesso anche il potente alleato di Washington. “Non permetteremo più l'ipocrisia di questo status quo”, ripeteva nel bel mezzo del terremoto della svalutazione (e crollo della lira turca) scoppiato prima della pandemia, accusando la Casa Bianca e le monarchie del Golfo di manovrare sui mercati per destabilizzarlo. Retorica propagandistica che da un lato lo ha avvicinato allo zar Putin e dall'altro lo mette in sintonia con dittatori come il venezuelano Nicolas Maduro.
Il problema reale è che per quanto il sultano sia diffusamente ritenuto un partner non affidabile, e scomodo, non si può fare a meno di lui. Determinante è il suo veto per bloccare l'ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, decisivo il ruolo nella mediazione tra Russia ed Ucraina. A 100 anni dalla nascita della moderna Turchia il ricordo del suo padre fondatore Ataturk è appannato da un dispotico sultano, che aspira a ricreare l'impero e modella lo stato in senso sempre più pericolosamente nazional-islamista.
Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi