Lo sgombero
di Marco Celati - martedì 08 marzo 2022 ore 07:30
Preambolo esistenziale: l’antefatto
La mia vita è fatta di sgomberi, è una via crucis di traslochi. Come fossimo sfollati, reduci dalla vita le nostre esistenze fluiscono e nelle case che lasciamo rimane un po' di noi, mentre in quelle che occupiamo c'imbattiamo nei resti delle vite di altri. I nostri fantasmi si incontrano con quelli dei precedenti inquilini. Era nel DNA della mia famiglia, di mio padre e mia madre, pontederesi: da via Rossini, a via Montanara, al Villaggio Piaggio e poi in via Pascoli. Un esodo urbano. Forte di questa eredità di esodi anch'io mi sono dato da fare, ho proseguito e moltiplicato la diaspora della mia famiglia e della mia vita. A Firenze da studente, poi a Pontedera, alla Bellaria, al Centro e alla Stazione, per nozze, per amore e disamore. A Pisa, per lavoro e passione, e ancora a Pontedera nella zona scolastica e alla Bellaria. Di nuovo in Centro città, poi a Treggiaia e ancora in Centro. E infine chissà. Ho girato in tondo.
La fatica delle scale, la misura degli ascensori: di questo è composta l’esistenza. Avrei fatto meglio a tenere gli oggetti domestici, i libri e i vestiti, stivati nelle scatole, già pronti per il nuovo trasloco. Nel mezzo ci sono famiglie messe su e perdute, figli, affetti lasciati, separazioni, divorzi, amori ritrovati. In alcune case restano i nostri ricordi ed il cuore. A volte ci passo davanti e mi stringono il petto le serrande chiuse oppure le finestre illuminate con altre vite dentro. “In me solo rimasi, da me assente”: è un verso che ho sentito, non so chi l’abbia scritto. E anch’io ne devo scrivere. La scrittura non è un mestiere per me, ma un padrone sì.
Perché alla fine tutto si riassume in un succinto inventario: le misure di uno scrittoio, tre librerie, un armadio, due cassettiere e due scarpiere. Il conteggio è presto fatto. Il trasloco annunciato. Restano i terrazzi che sono l’avamposto delle case verso il mondo degli altri, i loro e i nostri pensieri, gli sguardi. Ricordo un terrazzino di meditazione, affacciato sulla Valdera. E di recente una lunga terrazza su una piazza assediata da auto e giovani vocianti. A volte incombe il calcolo noioso della caparra, la fastidiosa contrattazione dei danni, di ciò che si lascia o si paga. E per concludere i convenevoli, le strette di mano, i saluti. Scusate, sono stato bene nel vostro appartamento. Sarei rimasto. Le vicissitudini: si sa com'è, come vanno queste cose. Per dire invece che nessuno sa come vanno le cose. Cosa scatta nella testa e nella vita della gente. Quale tragedia o commedia. Che riserva il destino e quanta parte abbiamo nel determinarlo. Sicuramente ne abbiamo, ma la vita scorre con il tempo e con essa il giudizio su noi.
Il trasloco
Questa volta tutto è avvenuto perché l’appartamento concessomi generosamente in affitto ad un prezzo che direi di amicizia -se esiste l’amicizia- e di cui sarò sempre grato, è stato acquistato da una persona a cui ne è capitato bisogno per la propria vita. Tutta la mia comprensione insieme al dispiacere di non avere fatto in fretta come mi si chiedeva. Alla fine mettendomi anche pressione ed ansia. Ma in due mesi ho trovato una nuova casa e ho pure traslocato, riconsegnando l’appartamento vuoto e risistemato entro un tempo massimo, ma accettabile, in fondo.
Traslocare è un verbo nobile, si usa più a ragione se lo fai chiamando una ditta e spendendo bei soldi, se li hai. Diversamente è uno sgombero, come ho detto all’inizio, perché sgombero sa di fatica, di impiccio, di scatoloni da riempire, impilare, trasportare, svuotare. Di disturbo di parenti e conoscenti senza i quali non ce la fai, senza i quali non ce l’avrei fatta. Perché ti rendi conto che l’inventario è, sì, breve: le cose vere sono poche e di poco valore, ma le cianfrusaglie, le minutaglie sono tante e riempiono una o più vite. Il passato. Tutto si sconta, sopratutto il passato. Si vede proprio quando si cambiano le case: continui a portarti dietro roba inutile. “Roba mia vientene con me!”. E libri e librerie. Infilare le vecchie case abitate in una nuova casa da abitare, magari un monolocale, è un problema, una fatica improba. Chissà quanto utile, quanto giusta, quanto possibile. Come infilare la gioventù e tutti gli anni passati in una sola esigua, restante vecchiaia.
Il tempo stringe la vita, così sono passato da trilocali a bilocali, fino ad approdare a monolocali. E adesso da un monolocale più grande ad uno di ancor più piccole dimensioni. Piccole, ma alla fine non anguste. Seduto al tavolo apro il frigorifero, prendo un libro dallo scaffale, giro verso di me il tavolino della tivvù, guardo i palazzi di fronte nel riquadro della porta finestra che si apre sul terrazzino, occupato per metà dalla lavatrice slim. Si impara a muoverci con circospezione e con grazia. Quasi una danza, una ginnastica orientale. Il risultato è divertente, alla fine.
L’armadio nuovo
Sono stato a Mondo Convenienza per ordinare un armadio. Alla consulente ho detto, me ne occorre uno a quattro ante perché più grande non mi entra, dove torno. Si dice “torno”, ma sarebbe meglio “mi trasferisco”, a meno che uno non torni dove è già stato. In effetti da giovane -la gioventù essendo un fatto relativo- avevo abitato dove torno adesso, Forderponte, ma in Via Firenze. Che non era proprio Forderponte-Forderponte, era fuori dal quadrilatero popolare del quartiere. E forse “torno” è nel senso di tornare, girare come di giostra. Capitare. Perché vivere è un girare come capita: un giramento, insomma, ma torniamo a noi. Mi occorre un armadio di dimensioni ridotte perché vado ad abitare in un “monovolume”, ho ribadito. Anche se concettualmente è lo stesso, ho detto “monovolume” -che si dice per un tipo di automobile- e non “monolocale”. La consulente è rimasta spiazzata, un attimo perplessa: avrà pensato questo disgraziato torna in un’auto, magari una roulotte! E, soprattutto, come farà ad infilare in una roulotte un armadio a quattro ante!?
Mondo Convenienza è una ditta non solo conveniente per la convenienza, come propaganda il suo nome, ma anche per la rapidità della consegna: in massimo 48 ore un tempo te lo portavano e lo montavano a casa a un costo ragionevole, senza gli ardimenti e le tribolazioni svedesi del montaggio fai da te dell’Ikea. Tutto ciò un tempo, ma oggi, per via delle limitazioni imposte dal Covid agli approvvigionamenti, i magazzini sono ridotti e le consegne da 48 ore sono passate a 48 giorni. Così il famoso armadio arriverà solo a metà Marzo. Sono tornato nella nuova casa i primi di Febbraio e così tutti i vestiti sono ancora appesi nel vecchio armadio ridotto a scaffale nel ripostiglio, al freddo e al buio dell’interrato. Oppure negli scatoloni impilati sul pavimento e su un carrello mobile nell’appartamento, che devo spostare di continuo a seconda delle cose da fare. Consentire al tecnico di allacciare la rete, ad esempio: le prese della telefonia in un monolocale finiscono fatalmente dietro qualcosa, qualche arredo, armadio o divano che sia. Oppure montare uno scaffale con funzione -e finzione- di divisorio e corridoio per nascondere la vista del letto all’ingresso, con il mal riposto proponimento di creare -dal nulla- una zona notte distinta dal soggiorno-cucina.
Alla fine il risultato è una casa acrobatica, ginnica: occorre spostarsi con destrezza, in obliquo e a zig zag, evitando gli ostacoli costituiti da arredi messi per delimitare spazi funzionali, in una stanza di 29 metri quadri circa. Rinunciare per sempre ai percorsi brevi, in linea retta: del resto la vita stessa è tortuosa e perigliosa, perché non può esserlo un monolocale? Per rifare il letto ad una piazza e mezzo, per imposizione di spazio addossato da un lato alla parete, occorre mettersi a piedi nudi per avere presa sul pavimento e proiettarsi verso il muro con il braccio destro, sperando di non slogarsi il polso, e così inclinato, appoggiato sulla destra, rassettare le coperte con la sinistra. Che del resto -non tutto il male vien per nuocere- sarebbe bene imparare ad usare meglio. E non solo per rifare il letto. Inoltre un monolocale impone “ristrettezze”: la doccia è di dimensioni talmente ridotte che, una volta entrati e chiuse le antine scorrevoli, si sta solo ritti. “Mi lavo, ma non mi piego”. Se malauguratamente ti casca la saponetta, la puoi dare per persa. E la doccia è meglio farla alle ore “cuore della notte”, quando pochi la usano giacché, a causa del ritmo circadiano, hanno contratto l’abitudine di dormire. Così l’acqua viene calda. Perché il nostro è il condominio dell’acqua tiepida. Tiepida, tendente al freschetto. Meglio a primavera e in estate.
L’armadio vecchio
La costruzione di questo complesso è andata incontro alle vicissitudini causate dalla crisi edilizia, a sua volta dovuta al quadro recessivo che ha coinvolto il Paese. Così ci sono stati fallimenti e conseguenti messe all’asta, risolti i quali, solo ora il condominio del Vecchio Stadio comincia ad essere abitato a pieno. A ripopolarsi. Le caldaie e le tubazioni hanno sofferto di questo non breve periodo di abbandono e ora soffrono di incapienza, come diversi di noi. Sembra che, grazie alle agevolazioni per il miglioramento energetico varate in seguito alla pandemia, i proprietari provvedano al ripristino degli impianti termici. Speriamo. Nella vita, dopo tante docce fredde, una calda ogni tanto è quello che ci vuole.
Un altro effetto di questo disallineamento dei tempi abitativi dovuto alla crisi è che si sono persi i collegamenti tra le linee elettriche dei contatori tra gli appartamenti e i ripostigli nell’interrato. Perciò non si capisce dove vanno a finire i fili della luce e se quello dove stipi le tue robe inutili o eccedenti sia proprio il ripostiglio relativo alla tua abitazione. Così non si riesce a dar luce elettrica ai ripostigli. Con i figli abbiamo lavorato nella penombra, rischiarata da una lampadina portatile. Abbiamo montato gli scafali, trasferiti dallo stanzino della precedente abitazione, aggiungendone altri. E soprattutto abbiamo rimontato il vecchio armadio, che mi aveva accompagnato per ben più delle sue quattro stagioni, negli ultimi traslochi. Lo abbiamo ridotto, privo di quattro delle sei ante, a scaffale suppletivo sul lato opposto della scaffalatura. Con una delle ante, tagliate per mezzo di un seghetto alternativo acquistato all’uopo, -che non so a cosa sia alternativo, se non a una sega seria- sono state realizzate due mensole. Non si butta via niente. Montare l’armadio in quello spazio stretto, basso e scuro è stata una faticaccia e più che mai una vera impresa per cui devo ringraziare i miei figli. Se non fosse stato per loro… Mi hanno aiutato perché sono il padre, pur non sempre affidabile, e perché forse hanno capito che quell’armadio, così ridotto, privato delle sue ante, perfino della sua stessa funzione, quel vecchio armadio c’est moi, sono io. Ciò che resta.
Finito il lavoro, la bicicletta è stata incastrata all’inizio dello strettissimo corridoio dello stipatissimo ripostiglio, la porta è stata chiusa e se ne riparlerà fra un po’. Lo lascerò agli eredi, come del resto il nuovo cellulare acquistato allo spirare del precedente e dotato di 256 Giga -da 128 li avevano finiti- la cui memoria mi sopravviverà. Questo siamo: robivecchi e memorie.
A proposito, il musicista Éric Satie, personaggio dalle pose originali e dai comportamenti bizzarri, visse in un appartamento che chiamava "l'Armadio". Era composto da due stanze, di cui solo una utilizzata. L’altra era chiusa a chiave: il suo contenuto venne scoperto solo alla morte dell'artista. Conteneva una collezione di ombrelli di vari generi a cui teneva così tanto che non li usava mai. Satie era fissato anche con l'abbigliamento -io con le scarpe, ma porto quasi sempre le stesse e sono pure stonato- in particolar modo per i completi di velluto: ne possedeva tantissimi, tutti uguali. Un’altra fisse era il numero tre, un'ossessione mistica; forse una reliquia del simbolismo trinitario associato all’Ordine Cabalistico dei Rosacroce, del quale aveva fatto parte in gioventù. Molte delle sue composizioni sono raggruppate in cicli di tre, come le “Trois Gymnopédies” del 1888. Splendide. Soprattutto la numero uno. Ecco, mi viene da pensare che la mia nuova casa, con tutti i percorsi e la ginnastica che impone, sia una casa gimnopedica.
Molte suppellettili, il comodino, due pouf contenitori, persino il bambù finto dell’Ikea -che vendono intero, non occorre montare le canne e le foglie- hanno le ruote. Gliele ho messe io, così sposti tutto alla bisogna, anche per muoverti. La casa ideale sarebbe con tutti i mobili con le ruote, che si spostano a piacimento. Non sono mobili? Addirittura la casa ideale -ad avercela- sarebbe lei stessa con le ruote, che ti segue dove vai, dove ti porta il cuore o il caso. Ciò darebbe alla parola traslocare leggerezza e un altro significato, anzi il suo vero significato. E per la casa cambierebbe il fatto di essere un bene immobile.
La rete
L’altro giorno, aspettando il tecnico per l’allaccio in rete, mi sono messo a girare intorno ai palazzi e alle ville sorte al posto del vecchio stadio, inteso come campo di calcio, dove ora un altro vecchio, inteso proprio come vecchio -cioè ad uno stadio avanzato della vita- è venuto ad abitare, inseguito e perseguitato dai propri sgomberi. In passato mi ero limitato a dare un’occhiata al progetto di quel complesso insediamento che sistemò l’area degradata del ex cordificio Billeri e trasferì il campo di calcio, sollevando tante discussioni. Solo ora, a tanti anni di distanza, mi sono permesso una passeggiata tra le case e i percorsi aperti verso Piazza Trieste e Viale Italia. E tutto torna come da progetto. Ho costeggiato perfino la bella villa di quel medico che permise una permuta di terreni del suo giardino per consentire l’accesso al parcheggio e al verde attrezzato, dietro le case popolari. Raramente ripenso a ciò che è stato, richiamando il diritto all’oblio, ma confesso che mi sono quasi commosso. Al netto dei tanti fallimenti della mia generazione e di quelli delle ditte costruttrici, che mi rattristano e di cui quasi mi sento responsabile, al netto delle tante carenze di quei condomini, che bel lavoro è stato fatto! Un giorno, se questo trasloco avrà termine -forse ci vorrà un DPCM di Draghi che ne decreti la fine- e mi troverò ancora in vita e i gemelli, intesi come nipoti, non saranno già troppo cresciuti, li porterò sui giochini e sulle altalene della Piazza del Vecchio Stadio. C’è solo il verde non curato con l’erba un po’ alta, ma non si può chiedere troppo al nostro futuro.
Senza internet ormai non si vive e bisogna trasferire e allacciare l’attacco alla rete. Prenotato al negozio Vodafone, il tecnico per l’allaccio è venuto, ha fatto tutto, sennonché mancava il modem. Avevo quello vecchio, della mia precedente abitazione. Questo non funziona -ha detto il tecnico- comunque va tutto bene, quando le arriva il nuovo, l’attacca da se’, buona giornata, arrivederci. Perché non avevo il modem nuovo? Perché io appartengo alla Vodafone e alla Vodafone fanno così. Nel negozio ti fanno stipulare il contratto per il trasferimento e ci vuole un bel po’, quasi un mese, dopodiché non fanno altro. Infatti il negozio è sempre vuoto o poco frequentato. Il più e il meglio lo devi fare on line, per telefono. Invio del modem compreso. Così, al telefono, il centro servizi ti fa riempire a voce un questionario registrato chiedendoti l’autorizzazione a non averlo scritto, chissà se per salvare gli alberi produttori di carta, risparmiando anche quella riciclata o se per sveltire la procedura, informatizzandola e rendendola volatile. Ma non voglio pensare male. Nell’occasione ti accordano gentilmente l’invio gratuito del mitico modem nero, l’ultima potente edizione della power station della casa. La spedizione è affidata alle poste, il postino la prima volta non mi trova: indirizzo incompleto. In verità ero semplicemente al lavoro e mentre gli altri corrieri telefonano o fissano un giorno e a volte perfino una fascia oraria, alle poste no: vengono, se ci sei bene, se no diventi irreperibile e l’articolo torna al mittente. Però puoi tracciare questo angosciosa spedizione e così ho potuto rincorrere il mio modem tra i vari Centri Operativi Postali di Pontedera, che poi è a Ponsacco, e a Pisa, che è in mezzo alla campagna, verso Coltano. Inutilmente telefoni, nessuno risponde e se ci vai -ed io sono andato- suoni e nessuno ti apre: ti vedono, ma non ti aprono, il pubblico non è ammesso. Questo è il bello di un servizio pubblico. Vengo dal pubblico impiego e mi dispiace, ma è così. A Pisa un vigilante che si è sbracciato per bloccare la mia macchina all’ingresso del Centro -le sbarre erano aperte- si è poi gentilmente offerto di chiamare il direttore. Ho sentito il telefono nel suo ufficio garitta che squillava a vuoto. Non hanno risposto neanche a lui ed era effettivamente dispiaciuto. Quasi quanto me e questa è solidarietà.
Il pacco mi è stato nuovamente inviato dopo una settimana: stesso indirizzo, stesso corriere che questa volta mi ha trovato perché ho avuto culo che ero a casa, uscito dal lavoro. Tutto è bene quel che finisce bene. Peccato che non finisce mai. Ecco perché quando il tecnico è venuto ad allacciarmi in rete non avevo il modem, la station wagon, la power station del cavolo. Ed ecco perché ha potuto dirmi, tutto a posto, buona giornata, arrivederci. Ma anche no, ho pensato, buona giornata un tubo. Che tutto a posto in effetti non era per niente, ma procediamo con ordine.
E l’ordine è questo: per i problemi della telefonia e della rete devi rivolgerti al servizio clienti, telefonando al 190. Ti risponde un robot che si chiama TOBi, scritto così. Ti fa delle domande pre impostate, se gli rispondi bene ti chiede “solo un attimo” e si va avanti. Solo che a son di “solo attimi” si fa una certa, t’incazzi e chi s’incazza è perduto. Si sa. Se lo mandi affanculo la condanna per la tua maleducazione è la caduta della linea. Non si offendono i robot: è scritto nell’ultima legge della robotica di Asimov, quella a caratteri piccoli, in basso. C’è un trucco, però: il robot, che non può nuocere più di tanto all’uomo creatore -altra fondamentale legge della robotica- è sensibile alle parole chiave: “consulente” o “operatore”. Se ripeti continuamente, come un ossesso, “voglio parlare con un consulente, voglio parlare con un operatore”, alla fine, forse in un moto di compassione o pietà -i robot di ultima generazione devono avere un’anima- ti passano un’albanese. Scritto con l’apostrofo perché in genere donna: sono le più cortesi e comprensive. Ascoltano il tuo problema, rintracciano la tua scheda e ti affidano ad un collega italiano, in genere uomo. Il quale ti spiega che occorrono altri 15 giorni perché serve “un permesso”. Quale, chiedi? Il permesso di Tim -o Telecom che dir si voglia- proprietaria della rete che conceda, bontà sua, di attaccarti alla rete. Se no ti attacchi al tram o peggio, ma questo il consulente non lo dice, lo pensi da te.
Nel frattempo la Tim tutti giorni ti telefona roboticamente o di persona per chiederti se va tutto bene e se vuoi sentire le offerte della loro telefonia fissa e mobile. È il mercato, bellezza! Finché un giorno ti chiama una stronza -fa il suo mestiere, ma sempre stronza è- che in un italiano con forte accento dell’est, un tempo a socialismo reale, ti dice impietosamente e con aggressività, qualificandosi come “ufficio tecnico”, che Vodafone non ha più linee in cabina e che, se proprio voglio collegarmi alla rete, posso usare solo Tim -guarda caso- o Fastweb. A questo punto, bypassando il fido TOBi, richiamo il consulente Vodafone che mi rassicura trattarsi di concorrenza sleale -io gli comunico il numero della chiamata per una loro eventuale denuncia- e che fra 15 giorni avrò la linea. Di stare sereno. Rispondo va bene, ma conto 15 giorni da quando è venuto il tecnico e al sedicesimo giorno passo al nemico, come Dušan Vlahović, l’ex della Fiorentina che ha spezzato il cuore a mio fratello, tifoso viola come me, del resto. E se avesse ragione la stronza? Io sono stato rivoluzionario in gioventù, riformista forte da grande, progressista debole da vecchio. In politica. Ma nell’esistenza sono un conservatore. Perciò resisto, ma non me la sento di immolarmi per la rete: “In questa casa traslocò e visse Marco Celati, presunto scrittore, MARTIRE di VODAFONE”.
Gran finale: la Cina e la scoperta dell’acqua, Putin e le bollette, Forderponte popolare
Il nuovo appartamento è luminoso, non ci sono palazzi a togliere luce e vista. Ci sono tende alla porta finestra e in bagno. Per avere un di più di privacy visiva ho comprato, in un negozio cinese, quella pellicola adesiva che si appiccica ai vetri rendendoli opachi, effetto ghiaccio. Quando ho iniziato ad applicarla, togliendo lo strato trasparente di protezione, mi sono accorto che non era adesiva. Allora sono tornato dal cinese. Non è una questione di soldi, ma di principio, ho detto seccato. Non si appiccica, vede? Ma questa pellicola si attacca con l’acqua, mi fa. Con l’acqua? Ma è sicuro? Siculissimo, plova, ha risposto. L’acqua invece della colla! È una diavoleria cinese? Gli ho chiesto. Ha riso e mi ha offerto la tessera con gli sconti del negozio. Voi non ci crederete, ma bagnandola la pellicola si attacca davvero ed è anche più semplice stenderla, eliminando le bolle d’aria. Sta su per magia, per miracolo o in virtù e in applicazione di una naturale scienza millenaria. Da una superpotenza mondiale non ti aspetteresti una soluzione così semplice, ma mai sottovalutare la forza dell’acqua. Oddio, di quando in quando con un fruscio la pellicola viene giù, si sfoglia. Forse si asciuga per il sole, chissà. Ma la bagni di nuovo, la riattacchi al vetro e ci sta ancora. È precaria, ma resiste. È resiliente, come la vita.
Devo completare il trasloco facendo le volture per luce e gas, mentre infuria la guerra in Ucraina. Le bollette “energetiche”, già in crescita per l’inflazione e l’aumento del greggio, subiranno l’impennata, speriamo mitigata dal Governo, dovuta alla riduzione o chiusura delle forniture di gas dalla Russia per le sanzioni giustamente comminate a quei barbari invasori. Il despota Putin! Che disastro, che scempio! Quale tragico sacrificio di vite umane! Quale minaccia alla pace! Per cosa poi? L’anacronistica contesa delle aree di influenza, l’assurdo arbitrio per cui un popolo come il Donbass -se una regione può dirsi popolo- può dichiararsi russo, mentre un altro, come quello dell’Ucraina, ben più numeroso, non può dirsi europeo a tutti gli effetti e restare indipendente. Questa la scelta di campo: con la democrazia tutta la vita. Poi se l’Europa facesse da sé sarebbe anche meglio. Speriamo nella diplomazia, ma fino a quando la guerra non diverrà un “tabù” come l’incesto, resistere agli aggressori si deve. Intanto morti e sfollati. Parecchio peggio del mio pur tormentato sgombero. Uno sgombero epocale. Ancora profughi in fuga, ancora persone perdute che dobbiamo aiutare. Che chiedono solidarietà nella diaspora del mondo.
Poi, dopo luce e gas sarà la volta dei rifiuti, la famosa Tari e, dulcis in fundo, del cambio di residenza. Che va fatto on line. Diversamente da altre categorie lavorative, il pubblico impiego non si è ancora riavuto dalla pandemia. Così bisogna prenotare. Speriamo bene, ma ce la faremo. Ora e sempre, residenza!
Insomma dopo questo interminabile trasloco, alla fine della fiera, all’ultimo giro di giostra, tornato nel popolare quartiere di Forderponte, quello dei miei nonni e zii materni, potrò ancora dire “hic manebimus optime”. Il problema semmai è chiedersi, riprendendo il dotto e antipatico Cicerone, “quousque tandem?”. Fino a quando? Avverto: se dovrò di nuovo traslocare, niente più sgomberi. Mai più. Lascio detto ai figli e ai miei cari: la prossima destinazione sarà una Casa di Riposo sulle colline della Valdera, a Lari. Oppure “Villa Brigida”, a Lamporecchio, gestita dalle cooperative sociali “Eros & Thanatos”. Non me n’ho a male, davvero: via via, mi venite a trovare e andrà bene così. Che sia “Stato Sociale”, che si prendano tutta la mia modesta pensione e mi accudiscano. Prego solo, finché avrò umana coscienza: una stanza singola. E basta.
Pontedera, Forderponte, Febbraio/Marzo 2022
Marco Celati
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