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sabato 14 dicembre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Racconto interattivo

di Marco Celati - lunedì 14 dicembre 2015 ore 19:56

Questo è un racconto interattivo. Dovete contribuire anche voi lettori alla sua stesura. Un autore non può sempre fare tutto da solo, scrivere è già una bella responsabilità, inventarsi una trama decente. Ho una storia un po’ vaga di cui conservo un ricordo impreciso e ci sarà una ragione: vedremo. Però ora vi chiedo uno sforzo di fantasia. Un racconto vive nella mente di chi scrive, ma anche di chi legge. E dunque iniziamo.

È sera, ci sono tre persone, intorno ad un fuoco, si asciugano perché hanno i vestiti bagnati. Sono su una spiaggia lunga, vicino al mare, ci sono palme. Il mare è un poco mosso, quel che resta di una più forte mareggiata, il clima è caldo umido, forse tropicale. Non so come i tre abbiano fatto ad accendere il fuoco, perché siano bagnati, perché si trovino su quella spiaggia e che posto sia quello. Non lo so. Pensateci un po’ anche voi, per favore, io posso fare solo delle congetture: il fuoco potrebbero averlo acceso con un accendino che uno di loro si è trovato in tasca, sono bagnati perché potrebbero essere approdati su quella spiaggia nuotando. Forse sono reduci da un naufragio oppure li ha colti un acquazzone tropicale, una pioggia portata dal monsone. Chissà? Cosa sia quel posto può darsi che il proseguo del racconto ce lo riveli. Al momento non lo sappiamo. Potrebbe trattarsi di tre partecipanti ad uno di quei viaggi avventura: sono stati portati in volo, insieme ad altri, per un’escursione con un piccolo aereo da turismo, uno di quei minibus con eliche ed ali e potrebbero aver mancato l’orario di ritorno ed essere stati dimenticati lì, dove si trovano adesso. Fate voi, io mi sforzo inutilmente di mettere a fuoco la storia. Vedete come è difficile raccontare le cose?

Quello che so e che posso dirvi con certezza è che non siamo in uno di quegli odiosi reality televisivi e che i tre non si conoscevano tra loro: un incidente, un caso, probabilmente il destino li ha fatti incontrare. E so anche chi sono. Come lo so? Perché, dopotutto, sono pur sempre l’autore: lo so e basta. Sono persone che nella loro vita hanno fatto altro ed erano in fuga, dal mondo, da sé stessi e dal loro isolamento. Sono tre ex: un ex frate, un ex farista ed un ex astronauta. Dell’ex frate conosco pure il nome, Donato. Non era proprio un frate, era un laico che si era ritirato in un convento di clausura al servizio dei monaci per rimediare al proprio passato turbolento e feroce. Finiti i tre anni del suo contratto con il monastero, aveva provato a ripercorrere la vita. Gli altri due li chiameremo con il nome della loro precedente professione, come se fosse un titolo emerito: il farista e l’astronauta. In effetti si era trattato per entrambi di un lavoro speciale, che non si può certo dimenticare. Come quello del frate, del resto.

Scendeva la notte, un quarto di luna di traverso e un cielo stellatissimo, il mare si muoveva, si muove sempre il mare anche la notte, non sta fermo mai, come una canzone. I tre si alternavano a portare legna per tenere vivo il fuoco. I vestiti erano quasi asciutti, faceva caldo, però alimentare il fuoco assegnava loro un compito, dava loro sicurezza in quella strana e precaria situazione. Era un segnale e la fiamma è ipnotica. Si erano trovati su quella spiaggia che forse doveva essere stata un punto di arrivo drammatico o un punto di partenza mancato. Avevano preso fiato, inveito, acceso il fuoco per asciugarsi e, dopo una fase di imbarazzo, si erano presentati, avevano parlato fra loro. Avevano finito per dirsi chi erano o chi erano stati. Per questo lo sapevo.

Al momento erano isolati non avevano cellulari o, se li avevano, erano scarichi oppure resi inservibili dall’acqua. Allora erano i soli superstiti di un naufragio? Non lo so, vi dico, cari lettori che non siete altro, pensate voi alla storia che può sembrarvi migliore. Però avevano degli orologi funzionanti, in ogni caso evidentemente resistenti all’acqua e ora, di notte, avevano deciso di dormire un po’ a turno, qualche ora ciascuno. Quante ore? Che palle, non lo so! Non è importante. Concentratevi sulla storia, piuttosto, lasciate perdere i particolari.

Si erano riproposti all’indomani di dividersi e andare in ispezione per cercare di capire in che luogo si trovassero ed eventualmente stabilire contatti. Si sarebbero ritrovati insieme la sera per accendere di nuovo il fuoco: l’accendino l’avevano. Lo avrebbero nascosto sotto due pietre, al riparo, in un luogo sicuro sulla spiaggia. Così il primo che arrivava avrebbe appiccato il fuoco. Dormirono così sotto le stelle, secondo l’ordine che si erano dati. Un sonno inquieto. Al mattino, quando il sole si era da poco levato, partirono ognuno in tre diverse direzioni.

Il farista si diresse al centro, oltre i palmizi e si inerpicò su un'altura, penetrando una vegetazione fitta che si rarefaceva man mano che saliva. Camminava solo, ma all'isolamento era abituato, sentiva piuttosto la mancanza del suo cane Ronni. Un giorno, tornato in paese dopo i tre anni di vita sul faro dove l'aveva portato con sé, il cane era sparito. C'era un circo nei paraggi e si sentiva dire che la notte gli animali girovaghi li catturano per darli in pasto alle bestie. Povero vecchio Ronni!

Arrivato sull'altura, salì sull'albero più alto e quando fu in cima guardò l'orizzonte attorno a se': gli sembrava di essere sul suo faro. E vide.

Era un'isola, non tanto grande, tutto intorno si stendeva l'azzurro del mare. Era tornato a casa: era stato custode di un faro su un'isola disabitata e il fato, superiore anche agli dei, l'aveva riportato in un luogo simile a rivivere la propria solitudine. Non si sfugge a sé stessi, pensò, e sentiva il sole e il vento in faccia, sentiva l'odore delle piante e la voce del mare lontano. Aveva sempre sentito il dolore degli uomini e provato l'amore. E il disamore che segue l'amore.

"Sento tutto quello che sento, ma non sento più noi e non riesco più a dirti parole che ti siano d'aiuto e d'amore nella vita che dura". Era la sua storia di affetti perduti.

Scrutò di nuovo l'orizzonte, in lontananza uno sfondo grigio sembrava far intravedere una terra ferma, un continente o un'altra isola. Guardò meglio, era abituato a osservare il paesaggio e avvertire i segnali del tempo. Non era terra. Erano nuvole, in avvicinamento piuttosto veloce. Una tempesta, un monsone, ne aveva sentito parlare, si dirigeva sull'isola: sarebbe arrivato nel corso della giornata e sarebbe piovuto a dirotto, a giudicare dal grigio della nuvolaglia. Decise di tornare, aveva impiegato tutta la mattina per giungere fin lì; verso sera sarebbe arrivato alla spiaggia dagli altri due compagni di avventura o di sventura. Avrebbe detto loro che si trovavano su un'isola. Si era portato delle scorte: banane da mangiare e un cocco da spaccare per bere. La natura non è solo matrigna. Consumato il frugale pasto riprese la via del ritorno.

Il frate, anzi l’ex frate che ormai si faceva chiamare Donato, si era diretto verso destra, lungo la spiaggia. Aveva superato un promontorio e poi un’altra insenatura e un’altra ancora e chissà quante altre. Ora la riva era scogliosa e sempre più impervia per i suoi sandali: una memoria del convento. Prese a salire sulla scogliera dove, in alto, aveva visto qualcosa: come una costruzione mimetizzata e incastonata tra le rocce e un edificio sulla sommità di una cala. Arrivò alla costruzione: era in disuso, abbandonata, ma riconobbe cos’era dalla croce, ricavata da due tronchi corrosi e restituiti dal mare, posta su un altare di pietra: una chiesa a picco sul mare.

E sopra, un viottolo, scavato nella roccia, conduceva ad un edificio disabitato e devastato dall’ingiuria del tempo. C’erano stanze che parevano celle con finestre inferriate. Doveva essere stato un monastero o un penitenziario o tutte e due le cose insieme. In fondo sempre di penitenti si trattava. Era tornato a casa. La bontà infinita della divina provvidenza che “ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei” l’aveva ricondotto verso sé stesso. Ricordava quando con la camionetta militare lo portavano a lavorare nei campi o nei terrazzamenti degli olivi con i reclusi del carcere speciale. E ricordava anche quando, scontata la pena, si era ritirato, già anziano, in un convento a servire i fratelli, recluso fra i reclusi dal mondo. Ma come si fa a vivere senza amore? Digiunò. Rimase a lungo assorto in preghiera in una cella e dai riquadri dell’inferriata, pregando, vedeva l’azzurro, a volte attraversato dal volo di qualche gabbiano. Poi salì sulla copertura a terrazzo, si affacciò e vide.

Era un’isola, una piccola terra verde, circondata dal mare. Lo devo dire agli altri stasera e si avviò, giù per la discesa.

L’astronauta si era incamminato lungo la costa, verso sinistra. Ben allenato, dopo i tre anni passati con l’Agenzia Spaziale Europea, andava veloce e leggero. Indossava scarpe e vestiti performanti e traspiranti, frutto della ricerca spaziale. Non si sa quanta strada abbia fatto. Il paesaggio era primitivo, selvaggio, sembrava un pianeta inesplorato. Gechi e ramarri smeraldini spuntavano da ogni dove, facendolo a volte trasalire di ammirazione, a volte di spavento. Le loro livree erano di colori accesi: maculate quelle delle tarantole, verde abbagliante quelle dei ramarri. Le dimensioni più grandi del normale, frutto di una mutazione o di un’evoluzione genetica. Specialmente i ramarri erano grandissimi. Sembravano creature aliene. Non si scansavano al suo passaggio, sembrava lo guardassero come un intruso. Comunque procedette sul suo cammino, con qualche prudente deviazione. Intravedeva da lontano una sagoma, il profilo di una specie di torre, in un punto più in alto, sopra la costa. Durante il cammino ingurgitò delle pasticche e delle barrette secche che si era portato dentro un contenitore plastico protetto: la dieta del cosmonauta. Spaccò un cocco con una pietra scheggiata e bevve. Quando il sole era alto e bruciava arrivò alla torre e salì. Era una costruzione a più piani, in parte franati, collegati da scale. All’ultimo piano si trovava una vecchia radiotrasmittente arrugginita e in disuso. Doveva essere stato un osservatorio forse dei tempi di guerra. C’era anche un grosso cannocchiale con le lenti rotte, per guardare che cosa? Le stelle per ricavarne l’orientamento? Ma tutto era inservibile ormai. Anche la radio. Provò a smanettare, prese il microfono: “Base, base, mi sentite?”. Ci fosse stato un telegrafo funzionante avrebbe battuto tre punti, tre linee, tre punti: S.O.S. Save our souls, salvate le nostre anime. Ma niente, ovviamente, dava più segni di vita. Era tornato: il caso che crea e sovrintende l’universo ed i mondi l’aveva riportato alla deriva di sé. Era di nuovo isolato dal resto della terra. Come quando rimase a lungo solo nel modulo spaziale e ogni comunicazione venne interrotta a sua insaputa per sperimentare gli effetti psicologici dell’isolamento dell’uomo nello spazio profondo. E credeva di spengersi, sperduto nella galassia siderale. “Non si riesce a comunicare più con nessuno al mondo”. Salì i gradini che portavano alla sommità della torre e vide.

Era su un’isola, popolata da rettili: intorno solo cielo e mare. Intanto stava scendendo la sera e il cielo sembrava farsi minaccioso così, rapido, prese la via del ritorno per comunicare al frate e al farista questa sua scoperta.

Imbruniva già, quando i tre si incontrano di nuovo, come previsto. Avevano fatto ritorno alla spiaggia in cui, non si sa come o quando, si erano trovati e da cui erano partiti. Tre uomini isolati che avevano incontrato di nuovo le ragioni o le cause del loro isolamento, della loro solitudine. Siamo su un’isola, si dissero. Poi portarono legna per accendere il fuoco, ma l’accendino, dove l’avevano nascosto, non si trovava più. Non facciamo scherzi! Chi l’ha preso? Nessuno di noi. Allora non siamo soli su quest’isola!? C’è qualcun altro che ci spia e si diverte con noi? Ad un tratto, annunciato da un vento fortissimo, arrivò il monsone e si abbatté sull’isola. Pioveva a dirotto. Donato, l’astronata e il farista cercarono disperatamente un riparo verso le palme, da dove proveniva un rumore improvviso, sempre più insistente che li spaventava, li incuriosiva e sembrava richiamarli...

È a questo punto che mi sono svegliato. Di soprassalto e sbalordito. La suoneria del cellulare sul comodino mi ricordava che era mattino ed era un giorno di lavoro. Era stato tutto un sogno, solo un sogno. Forse un sogno di sogni, avventuroso e vago. “La vida es sueño”, secondo Pedro Calderón De la Barca. Ma la vita è davvero un sogno? O i sogni aiutano a vivere? Come si chiede un simpatico e nottambulo cazzaro televisivo. Non si sa. Voi, cari lettori, che ne pensate? Dal mio modestissimo osservatorio posso solo limitarmi ad affermare una banalità: posso solo dirvi che a volte si vive e a volte si sogna.

Marco Celati

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La Isla, Venerdì 23 Ottobre 2015

Questo “Racconto interattivo” si deve a mio figlio Luca che mi ha suggerito di fare incontrare i personaggi delle mie precedenti storie, facenti parte della “trilogia dell’isolamento”: il farista, il frate e l’astronauta, che così sono diventati tre personaggi in cerca di un racconto. Ringrazio gli ipotetici lettori per il contributo di fantasia, nonché di pazienza.

Marco Celati

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