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lunedì 02 dicembre 2024

PENSIERI DELLA DOMENICA — il Blog di Libero Venturi

Libero Venturi

Libero Venturi è un pensionato del pubblico impiego, con trascorsi istituzionali, che non ha trovato niente di meglio che mettersi a scrivere anche lui, infoltendo la fitta schiera degli scrittori -o sedicenti tali- a scapito di quella, sparuta, dei lettori. Toscano, valderopiteco e pontederese, cerca in qualche modo, anche se inutilmente, di ingannare il cazzo di tempo che sembra non passare mai, ma alla fine manca, nonché la vita, gli altri e, in fondo, anche se stesso.

Luana

di Libero Venturi - domenica 16 maggio 2021 ore 07:30

Morire per lavorare è il più grave, il più tragico dei controsensi. Perché lavorare, si lavora per vivere. Il lavoro, anzi, è connaturato all’esistenza delle persone e determina la dignità stessa di ciascuno di noi. Qualsiasi lavoro: manuale, intellettuale, alle dipendenze, autonomo, applicativo, dirigenziale. Qualsiasi lavoro ci rappresenta. Ci offre la possibilità di vivere, migliorarci, perfino riscattarci. Renderci autonomi. Anche se non ci piace, anche se non è quello che avremmo voluto o pensato per noi. O quello per cui abbiamo studiato. Provate a chiedere, fuori di retorica, a chi non ne ha. A chi l’ha perso, il lavoro. Alle donne che non lo trovano e alle quali viene negato. A chi lo cerca con disperazione per mantenere se stesso, i figli, la famiglia. La vera, la più grande disperazione sottaciuta è di coloro che non lo cercano più, che hanno perso la speranza, i giovani che non credono più né nello studio, né nel lavoro. E chiedete ai vecchi che arrancano con la pensione o senza. Non è mai un conflitto generazionale, ma un problema del sistema economico e sociale. Il contrasto da risolvere è fra capitale e società. Perché per un lavoro si lotta, come si è lottato nel tempo per migliorarlo, per renderlo meno faticoso, più remunerativo, riducendone o mitigandone le forme di sfruttamento e subordinazione. Per una buona occupazione. O un’impresa economica. Per una società più giusta: prima l’uomo e non il profitto. Un diritto e un’opportunità, una leva di trasformazione e di progresso. Si lavora per vivere. E non è vero che si deve vivere per lavorare, diventando noi il lavoro che facciamo. Come non è vero che il lavoro sacrifica la vita e va rifiutato. “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”. Era un vecchio slogan della campagna per la riduzione a otto ore lavorative del movimento operaio e sindacale. Siamo in Australia, nel 1855. Perciò non si dovrebbe morire per lavorare. Morire sul lavoro non è un omicidio bianco. È un delitto.

Luana D’Orazio è morta in una fabbrica tessile a Oste di Montemurlo, in provincia di Prato, in un’Orditura che porta il suo nome. Si chiamava “Luana” come lei e questo le era sembrato portasse bene, che fosse di buon auspicio. Ci lavorava da più di un anno, operaia apprendista. Era una giovane madre e aveva bisogno di lavorare. Chissà se le piaceva. Aveva solo ventidue anni, era bella, le sarebbe garbato fare il cinema. Aveva fatto anche la comparsa nel film Se son rose, una commedia leggera di Leonardo Pieraccioni. È ritratta con lui. Le rose sì, ma il pane... perché c’era il figlio piccolo, cinque anni, il suo amore, e non si possono avere troppi grilli per la testa. Chissà. Mai dire mai, ma intanto lavorava. La mattina di lunedì 3 maggio è sparita in un orditoio industriale. Sottratta alla vita. Un orditoio serve per tessere, ci sono le “rocche”, una “cantra” e un “subbio” che alimentano e caricano i fili dell’ordito: una macchina che un tempo era fatta di telai di legno, termini antichi di un lavoro antico. Un orditoio moderno è fatto di cilindri, di rulli metallici pesanti e vorticosi. Il collega di Luana, l’annodino, era di spalle, si è voltato e Luana non c’era più. Inghiottita dagli ingranaggi della macchina. Senza un grido. Il filo della vita spezzato. Ma non c’entrano le Parche o il destino.

Non c’era un cancello, una sbarra di protezione, una cellula fotoelettrica, un meccanismo a bloccare il funzionamento in caso di eccessivo avvicinamento? Non c’era niente di tutto questo? Ci dovrebbero essere, invece, questi accorgimenti salva vita e salva lavoro. Ma non c’erano o non hanno funzionato. Ci saranno stati i corsi per la sicurezza? O sono stati solo una formalità di routine? Corsi per responsabilizzare padroni, datori di lavoro, sulla tutela dei lavoratori. E i lavoratori sulla consapevolezza del rischio. Ci saranno stati, ma non sono serviti o non sono bastati. Un altro giovane operaio, Sabri Jaballah, 23 anni, pochi giorni prima era morto schiacciato da una pressa a Montale, vicino, in un’altra tessitura. Tessere è il lavoro che dà vita a quel territorio. Anche a chi viene a cercarlo da altri paesi. Nel nostro i morti sul lavoro aumentano: 19 in più nel primo trimestre di quest’anno, in tutto 186 dall’inizio del 2021. E non ci consola che la statistica ci dica che magari il numero totale degli infortuni diminuisce di un qualche percento. È di vita che si sta parlando, di carne, di ossa e di sangue. Di mutilazioni o di morti orribili, strazianti. In Italia e nella nostra civile Toscana. È bene smettere di dire “perché non succeda mai più”, perché invece sta succedendo e continua ancora, e ancora, e ancora. Né possiamo rassegnarci. Dobbiamo chiedere piuttosto perché succede e cos’è che non va, che va cambiato. Cosa lo fa succedere, che non va fatto. Cosa andrebbe fatto, che non facciamo. E far sentire più forte il grido del lavoro. Per quanto possibile, buona domenica e buona fortuna.

Pontedera, 16 maggio 2021

Libero Venturi

Articoli dal Blog “Pensieri della domenica” di Libero Venturi