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lunedì 02 dicembre 2024

PENSIERI DELLA DOMENICA — il Blog di Libero Venturi

Libero Venturi

Libero Venturi è un pensionato del pubblico impiego, con trascorsi istituzionali, che non ha trovato niente di meglio che mettersi a scrivere anche lui, infoltendo la fitta schiera degli scrittori -o sedicenti tali- a scapito di quella, sparuta, dei lettori. Toscano, valderopiteco e pontederese, cerca in qualche modo, anche se inutilmente, di ingannare il cazzo di tempo che sembra non passare mai, ma alla fine manca, nonché la vita, gli altri e, in fondo, anche se stesso.

Sanremo

di Libero Venturi - domenica 16 febbraio 2020 ore 07:30

Vado controcorrente, non mi è piaciuto questo Sanremo. Si può ancora dire o si turba la coscienza nazional popolare? Non sono un critico musicale, non ho nessuna competenza, esprimo solo un’opinione personale, quella di uno spettatore, di un abbonato Rai. Che se gli abbonati Rai hanno sempre un posto in prima fila, come si dice, avranno anche il diritto di dare un giudizio gratuito. Proprio gratuito oltretutto no, perché il canone si paga. In prima fila al Festival c’erano schierati i dirigenti Rai che, frattanto, si beccano una multa astronomica, 1,5 milioni di euro, dall’Autorità per la Garanzia delle Comunicazioni per il mancato rispetto dei principi di indipendenza, imparzialità e pluralismo e per mancanza di trasparenza relativamente alla vendita degli spazi pubblicitari, nella conduzione generale delle reti.

E va bene. Inizio col dire che onestamente non ho mai stravisto per la manifestazione nazional canora, però, altrettanto onestamente, confesso che l’ho sempre guardata, come gran parte degli italiani. Sanremo compie 70 anni, come il sottoscritto, siamo d’età e non so chi li porta meglio o peggio. Quest’anno l’edizione ha raggiunto dei livelli di share invidiabili: 52%, 54% con picchi del 60% e di questo bisogna dare atto, tuttavia e forse proprio per questo non mi ha convinto. Capisco le logiche e le necessità di mercato, ma comprendere e condividere non sono sempre la stessa cosa. Più lo share si alza, più emerge il carattere eclettico e conformista della trasmissione e si livella la qualità. Quello che personalmente ho percepito è la grande voglia di consenso, di approvazione e la mediazione degli opposti che ne consegue.

Così, nonostante la presenza di Ronaldo in campo, il Festival ha giocato con il “falso nueve”, fin dalla scelta del conduttore. Infatti il presentatore ufficiale era Amadeus, bravo, impeccabile e a suo agio, elegante, con la sua invidiabile collezione di giacche, ma la vera punta era Fiorello, uno showman, mattatore divertente, improvvisatore, spregiudicato quanto basta. Anche un po’ sopravvalutato e sopra i toni, secondo me. Comunque irrinunciabile per la ricerca dei picchi di ascolto. Ridicolo il siparietto polemico, con immancabili risvolti social, sui tempi e gli spazi tra Tiziano Ferro, ospite fisso del Festival, e lui. Tiziano Ferro, tutto sorrisoni. Con tutti quei denti sembrava Jack Nicholson. Ma forse è solo invidia, la mia.

Insomma ciò che un tempo era inconsueto, innovativo, trasgressivo, oggi diventa riassorbibile agli effetti del consenso. E al massimo diventa nuovo, ma non necessariamente innovativo, cioè non così carico e interprete di vera novità. Troppa voglia di auto celebrazione, di standing ovation. Come di riconoscersi in qualcosa da parte di chi si sente smarrito: una storia più che un futuro. O forse un eterno presente in contemplazione nostalgica di se’. Le nuove proposte tra i giovani alla fine erano poche, ma va detto che anche fra i cosiddetti big, diverse erano le voci giovanili. Anzi è stato polemicamente osservato che le categorie dei cantanti erano due: chi cazzo è questo? E: ma questo è sempre vivo? Nel senso: ancora canta?

Tra i giovani usato ed abusato il rap. Che non mi piace, ma, al di là dei gusti, non mi pare un genere da Festival di Sanremo: l’orchestra va sopra la voce, i rapper ci mitragliano di parole sussurrate e biascicate con la bocca appoggiata al microfono perché forse la voce è quella che è, così non si capisce una mazza. Il che è tutto dire, trattandosi di canzoni che si basano sul ritmo, ma anche e soprattutto sul messaggio delle parole. O forse sarò io che sono un po’ sordo.

Tra le madrine, che ai miei tempi si chiamavano vallette, Rula Jebreal una spanna sopra tutte e tutti con la sua denuncia della violenza sulle donne da parte degli uomini, anche quelli che hanno le chiavi di casa. Coraggioso e toccante il racconto della sua vita. Drammatico e nello stesso tempo denso di determinazione e speranza. Pensare che volevano censurarla! Mentre Diletta Leotta sbolliva, melensa, con la nonnina cara.

Notevole l’appello contro le minacce alla libertà di stampa della brava Emma D’Aquino e il ricordo dei giornalisti uccisi. Ma mi è parsa una denuncia a metà, senza dire da chi provengono le minacce: il terrorismo, le mafie, quali Stati e governi, quali forze politiche? Traboccante cuore la lettera alle figlie di Laura Chimenti. Poi con Sabrina Salerno sembrava una serata di “babbions”.

Georgina Rodriguez, compagna di Ronaldo, con Ronaldo al seguito, poco espressiva. In compenso Alketa Vejsiu, la presentatrice albanese, parlava a mitraglietta, che nemmeno Mentana. Quando ha intonato “Una lacrima sul viso” ed è apparso Bobby Solo, quasi mi è preso un coccolone. Giuro, credevo fosse morto. Mi sbagliavo con Little Tony. Lunga vita a Bobby Solo.

A proposito, fa impressione vedere dive di un altro tempo, botulinate, con labbra e zigomi improbabili, per non parlare del resto. L’effetto è mostruoso. Perché non rassegnarsi ad invecchiare, oltretutto in un Paese dove tutti rincorrono una pensione anticipata? Perché resistere oltre il lecito, inseguendo ad ogni costo una giovinezza perduta, fino a compromettere la propria immagine e il nostro ricordo? Prendessero esempio da Anna Magnani che rivendicava con orgoglio le proprie rughe. Al suo truccatore che proponeva di farle scomparire disse: “Non me ne togliere nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele venire”.

Antonella Clerici, professionale come sempre, agghindata in vaporosi e vistosi abiti lunghi che sembrava un lampadario -l’ha detto lei- insieme ad Amadeus e Fiorello ha fronteggiato la situazione critica dovuta alla fuga dal palco di Bugo -mai coverto- in lite con Morgan. Fuga causata però da quel vanesio di Morgan. Che alla fin fine ce ne cale anche il giusto, per non dire nada. Soprattutto di Morgan, sempre sopra le righe.

Ha dita da pianista Francesca Sofia Novello, la longilinea modella, fidanzata di Valentino Rossi, ma secondo Ama un passo indietro: dietro la moto? Gli accordi dell’Ave Maria di Bach al piano li ha eseguiti bene.

I messaggi del Festival sono stati la denuncia della violenza contro le donne. Quella contro il bullismo. Il tema della diversità. Dell’handicap. Dell’amicizia. È anche emerso a più riprese un messaggio rivolto all’inclusione, con buona pace della sovranista dichiarata Rita Pavone, naturalizzata svizzera. Che anche la storica cantante, 74 anni-resiliente, magari condividerà. Spesso l’arte e anche lo spettacolo sono più avanti della società e della politica. Perfino di se stessi.

Benigni col Cantico dei Cantici se l’è cavata solo con due battute di striscio contro Salvini sul voto per citofono e il potere assoluto conseguito da Amadeus con gli ascolti al 52% e passa. Il Cantico dei Cantici, grande a sapere quando è stato scritto e sorprendente che faccia parte della Bibbia: versi di amor profano accanto all’amor divino. Però, diciamo la verità, così commovente non lo so. Certo Benigni è volato alto, misurato ed ovattato, mettendo tutti d’accordo, senza provocazioni di sorta.

Il Festival ai miei tempi durava poco, ora quasi una settimana e fino a tardissimo. È diventata una kermesse. E il dopo festival una cosa da nottambuli perdigiorno. Tra i vari show, in questa neutrale alternanza generazionale, è arrivata in diretta la reunion dei “Ricchi e Poveri”! Finalmente! Tutta Italia da tempo si chiedeva perché, da quattro che erano, fossero rimasti in tre -poi ridotti a due- e “Chi l’ha visto?” dove mai fosse finita Marina Occhiena, la bionda del gruppo. Comunque tutta la sala in piedi a ballare, accompagnando col battimano la loro esibizione.

Non una novità invece l’eterno ritorno di Albano e Romina Power, annunciati dalla figlia Romina Junior. Ovazione del pubblico per i vecchi successi. Dopodiché hanno eseguito, come ospiti, l’inedita “Raccogli l’attimo”, scritta dall’onnipresente Cristiano Malgioglio. La miglior canzone del Festival, fosse stata in concorso. Già che c’erano dovevano coglierlo l’attimo che però, si sa, è fuggente, anche nel corso di una lunga vita.

Tra gli ospiti, oltre le interpretazioni di Tiziano Ferro, una con Ranieri che sembra davvero suo padre, la Nannini, Antonacci e Ghali che ci ha fatto ascoltare il suo sound mixato, innovativo come fu quello di Mahmood, vincitore a sorpresa della scorsa edizione del Festival.

La qualità delle canzoni in gara non mi è parsa eccelsa. Più bravi gli orchestrali. I cantanti in concorso, tra big e soliti ignoti, erano 24, troppi per ricordarli tutti, specie se non ti resta un motivo in testa. E a me non è restato. Comunque dipende dalla preparazione, dal gusto e dall’orecchio. Forse, anzi sicuramente, ho poco di tutte e tre le cose. Diodato e Tosca più “sanremesi”, Gabbani questa volta in versione romantico melodica con la sua solita scanzonatura, che non so quanto si addicesse al testo. Forse bisognava biascicare meno le parole e crederci di più. Comunque la canzone più orecchiabile di tutte. Buone le Vibrazioni con “Dov’è”, a meno che non cercassero Bugo anche loro. Pelù non “Gigante”, come il titolo della canzone. Da Levante, che non credevo accettasse Sanremo, ci si aspettava di più. E poi cantanti che si vedono ogni anno solo al Festival, come Zarrillo che mi sembrò già datato fin da quando, un secolo fa, si esibì come nuova proposta. Dice sopratutto compone: e allora componga.

Achille Lauro molto attenzionato dalla critica e filato dai giovani, si è esibito ogni sera con look ispirati a Giotto/San Francesco, David Bowie, Marchesa Casati amante di D’Annunzio e Elisabetta I Tudor. Addirittura. Novello Renato Zero? Ma tutto per una canzone intitolata “Me ne frego”! Che come canzone no, ma come slogan s’era già sentito. Di Lauro ammetto che conosco solo: “C’est la vie”, bella, che non sembra nemmeno lui. Piacevoli i “Pinguini Tattici Nucleari” che prendono il posto e i modi dello “Stato sociale” dello scorso Festival. Rancore canta l’Eden prima del Ta Ta Ta. Si vede che nell’Universo ci fu il Big Bang e nell’Eden il Ta Ta Ta. A proposito, ma chi glieli sceglie i nomi d’arte a questi? Ultimo, Rancore, Anastasio. E quell’altro che cantava cose orribili con il velo pietoso di una maschera di brillantini. Roba da matti! Però è anche vero che così ragiona un vecchio. Nel 1960 avevo dieci anni, abitavamo al Villaggio Piaggio. Ricordo ancora che, davanti alla televisione in bianco e nero, facevo il tifo per Tony Dallara, nome d’arte, che cantava “Romantica”, ma in versione “urlatore” e non per quella melodica eseguita da Rascel, altro nome d’arte. Vinsero loro due.

Comunque gli applausi più scroscianti sono stati riservati al maestro Beppe Vessicchio, simpatica e autorevole controfigura vivente di Giuseppe Verdi. Benigni non a caso, traendo spunto dal Cantico dei Cantici, aveva auspicato che tutti, orchestrali compresi, avessero preso, ignudi, a fare all’amore, diretti proprio dal maestro Vessicchio. Celebratissimo “il nostro” Vincenzo Mollica che pare sia l’ultima volta che recensisce Sanremo. Il tremore evidente alle mani non compromette la testa anche se è da lì che proviene. Sanremo è Sanremo, ma anche la pensione quando arriva arriva. Invece triste è ciò che si dice di Franco Battiato e dello scrittore Daniele Del Giudice, uno dei miei preferiti: che un precoce male oscuro, una nebbia ne stia annullando la mente, il cuore, l’arte. La memoria. Non la nostra di loro.

Alla fine la votazione non finiva più e il Festival ha sbandato. I risultati dei primi tre non arrivavano. Solo il terzo: i “Pinguini Tattici Nucleari”, il nuovo che avanza. Quindi sono restati in lizza i primi due: Diodato con “Fai rumore” e Gabbani con “Viceversa”. Nell’interminabile attesa Amadeus e sopratutto Fiorello hanno tappato buchi e improvvisato, sul palco è andato su di tutto. La qualunque, dalla lirica al caribe, sembrava il veglione mascherato dell’ultimo dell’anno. Quando Amadeus ha minacciato i titoli del telegiornale, dalla platea, altrimenti plaudente, si è levato un mormorio di insubordinazione. Poi finalmente, quando un giorno era finito e uno nuovo iniziato, come avrebbe detto Marzullo, giungeva il risultato: ha vinto Diodato al quale sono andati anche i premi della critica.

Insomma, riassumendo, tanta, troppa voglia di normalità o normalizzazione, di buoni sentimenti o buonismo e motivetti così così, in questo Festival dell’amicizia e di tutto di più. Addirittura l’Inno di Maneli! Ma ci sarà di sicuro un sequel della conduzione, visti gli ascolti. Per me -né con Mara Venier, né con Barbara D’Urso- non è cosa. Però forse anche Sanremo e la tivvù, nel loro piccolo, fanno parte della vita che bisogna capire se va giudicata o semplicemente vissuta. E poi la presa di posizione dell’onorevole Ziello, che ritiene la vittoria di Diodato generata dal “sinistro pensiero” e dalle “ong taxi del Mediterraneo” per l'endorsement di Diodato in favore dell'ong “Mediterranea Saving Humans”, come appare dallo sponsor della maglietta indossata prima del debutto sul palco dell'Ariston, me lo fanno rivalutare. Il Festival, non l’onorevole.

Ho anche provato a votare per Gabbani, a simpatia: è carrarrino, somiglia nel viso a John Steinbeck che leggevo da giovane, ha sempre vinto a Sanremo, sarebbe stato il mito dell’eterno primo, come Cotugno dell’eterno secondo. E, se proprio si deve correre, meglio primo che secondo. Però un po’ il sonno e un po’ che non sono certo un nativo digitale, ma un boomer imbranato, sono riuscito a farlo solo dopo lo stop al televoto. E quindi niente. Se Gabbani ha perso di un punto è colpa mia. Buona domenica e buona fortuna.

Libero Venturi

Pontedera, 16 Febbraio 2020

Libero Venturi

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